Il vino deve essere adeguatamente preparato in modo che, dopo la sua immissione nel contenitore per la commercializzazione, non subisca più precipitazioni, rifermentazioni o altre modifiche organolettiche negative ai fini della qualità.
L’evoluzione in merito è sicuramente curiosa: negli anni ‘50-60 si imbottigliavano spesso vini instabili con le temute conseguenze. In seguito è diventata sempre più accurata la ricerca della perfetta stabilità microbiologica, fisica e colloidale, portando talvolta a degli eccessi negli interventi di pulizia del vino, con l’esito di avere sì vini impeccabili dal punto di vista della limpidezza ma snaturati, impoveriti nella loro struttura, nei profumi e senza personalità; men che meno con le caratteristiche originarie dell’uva. La tendenza attuale è di ottenere la stabilità, ma con il preciso intento di salvaguardare le caratteristiche acquisite in vigneto e di non asportare quelle sostanze che possono fare la differenza tra un vino di massa ed uno di qualità.
Un primo accorgimento è quello di non inquinare il vino con sostanze esterne che possono incidere sulla limpidezza, quali calcio, ferro e rame, in passato abbondantemente cedute dai contenitori e accessori, oggi non più un problema grazie all’impiego dell’acciaio inossidabile. In questo modo, salvo casi eccezionali, non è più necessario il ricorso a due processi di stabilizzazione (decalcificazione e demetallizzazione con ferrocianuro di potassio) in passato quasi obbligatori.
Viene vista in un’ottica completamente diversa anche la filtrazione la quale, se è vero che toglie sostanze instabili, asporta altresì i colloidi che, naturalmente, mantengono in sospensione parte delle particelle che potrebbero precipitare.