Può avvenire nell’ambito della stessa specie (es. Riesling x Malvasia) o tra specie diverse (Vitis riparia x Vitis rupestris). L’obiettivo è quello di ottenere un nuovo individuo con alcune delle caratteristiche migliori dell’uno o dell’altro genitore, ma solo raramente ciò avviene. Infatti, le probabilità di raggiungere un risultato interessante che, in ogni caso, è sempre casuale e mai garantito, aumentano con l’ampiezza dei semenzali. I primi risultati importanti nell’ibridazione della vite si sono ottenuti negli ultimi anni del XIX secolo con la produzione di quasi tutti i portinnesti attualmente in uso. In seguito sono state prodotte alcune varietà di uve da vino e molte varietà di uve da tavola.
L’incrocio intervarietale, rappresenta un buon sistema per provare a ottenere cultivar che abbinino le caratteristiche organolettiche comuni a Vitis vinifera, con la tolleranza alle principali malattie (soprattutto peronospora e oidio) offerte da Vitis labrusca, Vitis rotundifolia, ecc…
Vi sono anche recenti esperienze di incroci intravarietali, in cui Vitis vinifera europea è stata incrociata con vitigni sempre di V. vinifera con caratteristiche di tolleranza ad una o più patologie. È ad esempio il caso di due cultivar di vinfera provenienti dall’Asia centrale (Kishmish vatkana e Dzhandzhal) resistenti all’oidio.
Da un punto di vista storico e tecnico si possono individuare 3 fasi nella storia dell’ibridazione che corrispondono a generazioni differenti di ibridi.
Prima generazione. Individui americani frutto di ibridazioni spontanee o artificiali eseguite nel corso del XIX secolo. Essi, anche chiamati Ibridi Produttori Diretti (IPD) presentavano resistenza alla fillossera seppure non sempre completa, ma associavano ad essa una scadente qualità organolettica. Infatti era sempre prevalente il cosiddetto gusto “foxy” derivante dalla V. labrusca. In Italia attualmente, ad eccezione della cv. Noah (vite per uva da tavola), non è ammesso alla coltura alcun IPD al fine di preservare la qualità della viticoltura nazionale.
Seconda generazione. Sono ibridi ottenuti soprattutto in Francia a cavallo del 1900 con l’intento di incrementare la qualità dell’uva. Nello stato d’Oltralpe gli ibridi di seconda generazione ebbero una enorme diffusione raggiungendo nel 1950 i 400.000 ettari. Essi ottennero l’obiettivo di tollerare le malattie crittogame pur senza mai raggiungere livelli qualitativi accettabili, tanto che ne fu proibita la coltivazione in tutta Europa. Anche in Italia furono diverse le esperienze in tal senso specie presso l’allora Istituto Sperimentale per la Viticoltura di Conegliano, ma con risultati poco interessanti da un punto di vista pratico.
Terza generazione. Per fortuna la sperimentazione non si è mai fermata in tutta Europa, sfociando nella cosiddetta “terza generazione”. Tale fase tutt’ora in atto, consiste nell’ibridazione di genotipi ottenuti dalla seconda generazione con cv. di Vitis vinifera, ed eventualmente gli individui ottenuti, ulteriormente incrociati sempre con vinifera in modo da rafforzare il carattere “qualità dell’uva”. La Germania è il Paese che ha profuso il maggiore sforzo in tal senso, raggiungendo risultati eccellenti, con un buon compromesso fra resistenza alle malattie e qualità dell’uva e del vino. Negli ultimi anni anche diverse strutture in Italia sia pubbliche che private hanno fatto passi da gigante nell’ottenere ottimi ibridi, alcuni dei quali sono oggi ammessi alla coltivazione sul territorio Nazionale.